86 I numeri UNO - 2024 Innamorato del mio lavoro Sono nato a Milano, nel 1939, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, in una casa di ringhiera situata in un quartiere operaio. Nonostante fossi molto piccolo, riuscivo a percepire ciò che accadeva attorno a me, ma non attraverso la paura. In realtà, non ricordo di averne mai avuta percezione, probabilmente proprio perché ero un bambino. Mio padre, che non fu chiamato alle armi, lavorava alla Borletti, destinata a diventare una delle più note fabbriche di macchine per cucire. Lì si specializzò nella meccanica fine, una disciplina che praticava con passione anche al di fuori dell’ambiente lavorativo. Possedeva un’abilità innata, unita a una spiccata creatività, che lo portava a sperimentare e innovare costantemente. Affascinato dai meccanismi degli orologi, tra le sue tante invenzioni riuscì persino a mettere a punto un orologio al neon, che vendette con un discreto successo ai locali pubblici. Sfruttando queste sue capacità, decise di mettersi in proprio. Tuttavia, era un uomo incostante: non appena un progetto prendeva forma e iniziava a funzionare, lui lo abbandonava per dedicarsi a una nuova idea. Ho frequentato la prima elementare in casa, grazie a una maestra anziana che abitava di fronte a noi. Per timore di rimanere da sola in casa, soprattutto nelle giornate di cielo sereno quando il rischio di bombardamenti era maggiore, preferiva tenere le lezioni nel suo appartamento, offrendo a me e ad altri bambini un’istruzione nonostante le difficoltà del periodo. Ogni giorno infatti suonava l’allarme e seguendo le indicazioni del responsabile di stabile che sul tetto cercava di individuare da che parte arrivassero gli aerei, tutti eravamo invitati a scendere nei rifugi. Era l’epoca del famigerato Pippo, l’aereo che tanti morti aveva fatto fra i civili. È stato in un rifugio antiaereo che abbiamo appreso la notizia della fine della guerra. Pensavamo all’ennesimo bombardamento, invece erano gli aerei degli alleati che buttavano dei volantini che annunciavano la liberazione e fornivano le prime istruzioni ai cittadini, comprensibilmente felici ma disorientati. Finita la guerra, sono andato alla scuola pubblica, maschi e femmine in classi separate e, grazie a quell’anziana maestra, sono stato ammesso alla seconda elementare. Oltre alla scuola, trascorrevo gran parte del mio tempo nell’officina di mio padre. Ricordo bene che, per avviare la sua attività in proprio, fu costretto a vendere la radio, quella stessa radio che aveva acquistato per ascoltare i notiziari di guerra. Tempi duri per ricominciare quelli dell’immediato dopoguerra, di cui ho iniziato ad avere una certa consapevolezza ascoltando i racconti strazianti di soldati che, rientrati a piedi dal fronte russo, a casa ci sono arrivati anche dopo un paio d’anni. Tempi duri per ricominciare
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