56 I numeri UNO - 2024 Attorno ad Internet si stava sviluppando in quel periodo un enorme interesse. Anche se in realtà in pochi capivano cosa fosse e ne intuivano tutte le potenzialità. Molti investitori seri colsero l’opportunità e incominciarono a finanziare iniziative, che a loro volta avrebbero investito in aziende nel mondo della Rete. Si sviluppa così, anche in Europa, quello che siamo soliti chiamare venture capital, con gruppi o società che utilizzano denaro di investitori per far crescere delle start-up e poi rivenderle. Io, ancora molto giovane, avevo una spiccata attitudine all’uso dei computer e, da perfetto autodidatta nella loro programmazione, apparivo come un esperto del settore insieme ad un paio di coetanei compagni di università. È così che, investitori del calibro di Benetton, Pirelli, Mediobanca, e altri ci dettero 80 milioni di euro, che poi nel tempo diventarono quasi 200, per investire in progetti collegati allo sviluppo di internet in tutta Europa. Dal nulla, non ancora trentenni, abbiamo creato questo fondo, che si chiamava MyQube, che fu un pioniere del venture capital in Italia e in Europa. Mi ritrovai catapultato in questa nuova dimensione con la fortuna di chi si è trovato al posto giusto, nel momento giusto e nel contesto giusto. Con la leggerezza, o forse l’incoscienza, propria dei giovani. Le cose non andarono così male, perché fin da subito abbiamo capito due cose molto importanti. La prima, che l’Italia non era sufficiente e quindi abbiamo allargato il nostro raggio d’azione all’Europa. A Ginevra, all’inizio del 2000, andammo al CERN affinché ci aiutasse a creare degli spin-off. Lo stesso, abbiamo fatto in Germania alla ricerca di progetti universitari, ancora in fase embrionale, che fossero potenzialmente interessanti per gli investimenti. La seconda cosa, altrettanto importante, che intuimmo è che per portare a termine le varie fasi che caratterizzano un investimento, avremmo dovuto andare negli Stati Uniti. Dalla semina — le fasi iniziali si chiamano evocativamente pre-seed e seed, seguite poi dai round A e B e successivi che si susseguono man mano che il progetto giunge a maturità — al raccolto, con l’investimento, crescono e si diversificano anche i rischi: di management, di prodotto, di commercializzazione di una tecnologia. In Europa, in quegli anni mancavano in generale investitori che seguissero le fasi finanziarie più avanzate di sviluppo, che invece si trovavano negli Stati Uniti, dove il mercato di venture capital era molto più maturo. Decidemmo quindi di andare in California. Allora la Silicon Valley era un posto fantastico, aprimmo un ufficio lì e incominciai a fare il pendolare. Talvolta, rimanevo là anche per diverse settimane, prendendo contatti con diversi operatori di venture capital. Due dei nostri progetti, nei quali avevamo investito, non andarono così male. Completammo i round di finanziamento e alla fine vennero anche venduti. Nel frattempo, la bolla di internet era esplosa e i mercati si erano svegliati. Gli investitori si stavano orientando altrove, convinti che ormai quel filone di investimento fosse tramontato. Ci diedero il benservito, ringraziandoci per il buon lavoro fatto e ci chiesero di chiudere tutti progetti. Mi trovai costretto a licenziare personalmente tutti i collaboratori di quelle start-up, che pur non essendo degli unicorni, vale a dire aziende valutate più di un miliardo di dollari, potevano avere ancora la legittimità di rimanere vive e di generare, per quanto piccolo, del valore economico e sociale. Ma gli investitori non sentirono ragioni e anche il fondo venne chiuso. La leggerezza che rasenta l’incoscienza
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