110 I numeri UNO - 2023 scuola di restauro. Ma non è mai stata una seria alternativa. Della medicina mi piaceva l’idea di poter aiutare gli altri, di fare ricerca. In questo senso l’avere accompagnato, fin da piccola, mio padre nei laboratori dove lui lavorava, l’aver visto con quanta passione faceva il suo lavoro, in qualche modo mi ha sicuramente influenzata. Comunque, una volta deciso cosa fare, dovevo scegliere dove farlo. Scartati gli Stati Uniti, dove il percorso formativo era complicato e presupponeva che conseguissi prima un bachelor in un’altra disciplina, visto che i miei rientravano in Italia, si è profilata l’opzione di scegliere un’Università italiana. Fu piuttosto facile: eravamo tornati a Roma e mio padre aveva assunto una cattedra d’insegnamento a Perugia, che, guarda caso, fra quelle che offrivano medicina era ritenuta un’università molto buona. E Perugia fu. Lì, mi sono laureata, seguendo un iter che credo si possa definire canonico, in medicina e chirurgia. Per la specializzazione le cose non sono state così lineari. Sin dal quarto anno di università avevo chiesto di poter occuparmi di ricerca, in modo particolare nel campo della medicina vascolare. Che poi, in fondo, è quello di cui mi occupo ancora oggi. Pertanto, mi sembrava naturale specializzarmi in una branca della medicina interna. Tutto programmato? No, perché non è andata così. La sera prima di fare l’esame per accedere alla specializzazione mi chiama un professore e, senza tanti giri di parole, mi dice che quel posto io non l’avrei mai ottenuto: altri candidati si sarebbero comunque piazzati meglio di me. Forse non avrei dovuto sorprendermi ma mi montò una rabbia pazzesca. Tant’è, e quell’episodio si trasformò poi in un’incredibile opportunità. Passati due giorni difficili, in un moto di ribellione, decido che non avrei fatto nessuna specializzazione, puntando invece ad un dottorato di ricerca e me ne sarei andata da Perugia.
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